Quando ho iniziato il mio lavoro di ostetrica, all’inizio degli anni ottanta, la spinta propulsiva a cercare un modello di assistenza nuovo è stata l’osservazione della passività e del poco rispetto con cui le donne venivano assistite al parto. Fra le tante istanze “femministe” c’è stato, sia da parte delle donne sia da parte delle ostetriche, il desiderio di riprendersi la maternità ponendosi come attive protagoniste di un evento magico (il parto), punto di partenza per un percorso di consapevolezza di sé innovativo, per restituire a questa esperienza un significato di pienezza e positività che era stato penalizzato, tra le altre cose, anche dalla medicalizzazione massiva degli anni sessanta e settanta.
Ma ben presto assistendo le donne abbiamo, piano, piano riscoperto il bambino – che nei libri di ostetricia diligentemente studiati a scuola, veniva chiamato “corpo mobile di forma cilindrica”.
È stato Frédérick Leboyer il primo, con il suo libro “Per una nascita senza violenza”, che ha focalizzato la nascita dal punto di vista di chi nasce. E gli studi e le osservazioni successive ci hanno confermato la valenza enorme di vivere un momento così importante con rispetto e amore. Abbiamo scoperto che alla nascita si attiva una serie di ormoni che fanno sì che quel momento (imprinting) si ponga come irripetibile, ma soprattutto possa avere un significato nei comportamenti futuri dell’individuo fino all’età adulta.
Questa lettura della nascita dal punto di vista del piccolo ha innescato in noi ostetriche un senso di grande responsabilità e quindi il desiderio di garantire al massimo, l’attenzione e la cura al neonato. Sapere che il piccolo si trova immerso in sostanze/ormoni che lo rendono particolarmente sensibile a tutto ciò che gli viene fatto, mi ha portato a usare con attenzione le luci, la voce, il contatto, il gesto, lo sguardo. Ho creduto davvero che nascere con amore avrebbe dato una possibilità futura a ogni individuo.
Come dice Michel Odent: “Non si può davvero cambiare il mondo se non cambiamo prima il modo di venire al mondo”. Oggi alcuni di quei bambini sono diventati grandi e, non posso fare a meno, quando li vedo, di cercare nei loro occhi, nei loro comportamenti, nelle loro giovani vite se è rimasta traccia di quell’anelito, di quell’inizio che con tanta attenzione abbiamo protetto.
La mia è un’osservazione molto piccola, molto personale, assolutamente non “scientifica’. Deriva dal fatto che dato che ho molto creduto all’importanza per il neonato del suo venire al mondo, necessariamente mi viene il desiderio di una verifica.
La prima osservazione è che questa attenzione non si è rivelata una “promessa” di felicità.
La vita ovviamente è fatta di tante piccole e grandi variabili non ipotizzabili prima, e la nascita è solo la prima esperienza delle molte che seguiranno. Conosco tanti adolescenti alla cui nascita ero presente e vedo che ognuno è diventato un giovane piccolo uomo/donna con tutte le complessità di qualunque altro. Ma un’osservazione comune è questi ragazzi abbiano forse “una risorsa” in più.
La vita ti può colpire con gioie e dolori di qualunque tipo, fisici ed esistenziali, familiari e sociali, ma quello che fa la differenza è la capacità di affrontarli con sicurezza e duttilità. E chi può dire che questa sicurezza non origini proprio da quel primo momento?
Il segreto non è avere una vita felice e priva di complicazioni, ma riuscire a trovare dentro di sé le risorse per non soccombere, per trovare ogni volta delle soluzioni appropriate, per saper gioire e saper soffrire a seconda di quello che la vita ti fa incontrare.
Mi piace pensare che i nostri ragazzi abbiano avuto la possibilità di sviluppare come valenza d’amore positiva dentro di sé l’essere stati accolti con rispetto, con delicatezza e cura del gesto.
È stato un dono, niente di più ma anche niente di meno. Un dono d’amore.
Paola Iop per ‘Percorsi Bio Salute’
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